FIUMI, CORPI DI DONNE E RESISTENZA

FIUMI, CORPI DI DONNE E RESISTENZA

Marzo 10, 2021 0 Di Ilaria Cagnacci

Il 2 marzo sono passati cinque anni dal giorno in cui la leader indigena Berta Cáceres è stata assassinata per aver protetto la terra ancestrale della sua comunità dalla costruzione di una diga che minacciava una fonte di acqua vitale e sacra per gli indigeni Lenca nell’Honduras occidentale. Come Berta in molte parti del mondo le donne sono in prima linea per la difesa dell’acqua e della terra costruendo percorsi alternativi di lotta e resistenza che molto spesso le espongono al rischio di venire perseguitate, minacciate o uccise in un clima di quasi totale impunità.

Berta Caceres

Il filo che lega queste lotte è un modello economico estrattivista violento che stravolge la vita delle comunità che soffrono gli impatti di megaprogetti, estrazioni di petrolio, carbone, minerali, dighe e agroindustrie sul loro diritto di accesso all’acqua. Si tratta del watergrabbing.

Con questo termine (tradotto in italiano con accaparramento dell’acqua) ci si riferisce a situazioni in cui portatori di interessi economici e finanziari privati prendono il controllo o deviano a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole a comunità locali o intere nazioni, la cui sussistenza si basa proprio su quelle stesse risorse.  Gli spostamenti e lo sfruttamento dei fiumi danno spesso origine a conflitti dove profitto e potere si scontrano con il diritto alla vita e alla sopravvivenza non solo di numerose comunità ma anche di interi ecosistemi. Oggi si stima che nel mondo ci siano oltre 900mila dighe, di cui 40mila di grandi dimensioni e questi megaprogetti non servono solo per produrre energia “pulita”, ma diventano dei meccanismi di controllo dell’acqua mirati a danneggiare regioni, stati e popolazioni. Spesso accade che questo tipo di progetti vengano approvati violando il diritto alla consultazione libera previa e informata delle comunità interessate le quali si trovano davanti a un bivio: lottare o abbandonare le loro terre.

Molte volte le dighe stravolgono le vite ed il tempo prima scandito dal ritmo dei fiumi è ora alterato da queste infrastrutture, che inondano o prosciugano i territori, che pregiudicano in modo irreversibile la biodiversità, che costringono le comunità a spostarsi recidendo un legame ancestrale e profondamente spirituale con l’acqua, in alcuni casi considerata divinità.

Per le donne, la crisi idrica diventa anche una crisi personale. Le donne, infatti, sono le maggiori responsabili per quanto riguarda la ricerca e la raccolta dell’acqua per le proprie famiglie: si stima che le donne di tutto il mondo ogni giorno trascorrano complessivamente 200 milioni di ore per l’approvvigionamento di acqua.

Nonostante il lavoro di cura delle donne sia intrinsecamente legato alla terra e all’acqua secondo l’Organizzazione mondiale per l’agricoltura (FAO) nei paesi in via di sviluppo solo il 10-20% delle donne è proprietaria terriera, per non parlare del livello di esclusione delle donne da tutte quelle decisioni che riguardano l’uso del suolo e dell’acqua negando loro una voce nelle trattative su megaprogetti come miniere e dighe che vanno ad impattare irreversibilmente sull’ambiente. In un caso però le donne hanno vinto. Sono le donne di Kruščica in Bosnia Erzegovina. La piccola cittadina, che prende il suo nome dal fiume che scende dalle montagne boscose prima di passare in città, è diventata il simbolo di questa sollevazione generale contro la distruzione degli ecosistemi acquatici nei Balcani.

Le donne di Kruščica Fonte: https://www.balkanrivers.net/en/news/victory-for-the-brave-women-of-kruscica

La vicenda risale al momento nel quale le autorità locali decidono di costruire due dighe senza alcun tipo di coinvolgimento delle comunità locale, come spesso accade, nonostante il corso d’acqua non solo fornisca acqua potabile alla comunità ma contribuisca anche all’approvvigionamento idrico delle altre città vicine. Le “Donne coraggiose di Kruščica”, da cui oggi prende nome il piccolo ponte che attraversa il fiume, decidono quindi di proteggere il fiume con l’unico strumento a loro disposizione: i propri corpi. Dall’Agosto del 2017, queste donne sono diventate le guardiane del fiume 24 ore su 24 per più di un anno non senza difficoltà.

Il 24 agosto alle 5 del mattino la polizia si è recata a Kruščica e ha attaccato violentemente le donne che si erano sedute sul ponte per bloccare l’unico passaggio verso il cantiere. Il motivo per cui le donne avevano deciso di restare la prima linea è stata la convinzione che la polizia non avrebbe mai esercitato violenza su di loro, tuttavia, si sbagliarono: almeno 27 donne e due uomini hanno dovuto ricevere assistenza medica dopo l’attacco della polizia. Quello che si è reso evidente dopo questo spiacevole evento è che governo e istituzioni, il cui compito dovrebbe essere quello di garantire i diritti dei cittadini, hanno utilizzato un servizio pubblico come la polizia speciale nel caso di Kruščica per difendere capitali e interessi privati che però questa volta non l’hanno avuta vinta: il 14 dicembre 2018 il tribunale regionale di Novi Travnik ha accolto le obiezioni dei locali e ha dichiarato i permessi per i due impianti idroelettrici – Kruščica 1 e Kruščica – non validi.

Nel caso delle donne di Kruščica però, l’azione collettiva ha assunto un significato molto più ampio rispetto alla difesa del fiume diventando anche uno strumento di critica sociale ed empowerment delle donne stesse che, decidendo di stare in prima linea per la difesa del fiume, per la prima volta si sono appropriate dello spazio pubblico sfidando gli squilibri di potere. Se la politica a Kruščica prima della lotta era una questione puramente maschile ad oggi queste donne per la prima volta siedono al consiglio locale e hanno una voce sulle decisioni della piccola cittadina.

Il caso di Kruščica è emblematico e significativo dei rischi che oggi corrono i fiumi dei Balcani, regione nella quale si trova il maggior numero di fiumi “liberi” del continente europeo. Oggi a destare grande preoccupazione è anche il caso del fiume Vjosa in Albania e dei suoi affluenti che vengono considerati l’equivalente europeo della foresta pluviale amazzonica in termini di valore ecologico e biodiversità.

Al momento il fiume è minacciato dalla costruzione di ben 45 dighe – 8 lungo il decorso principale e 37 lungo gli affluenti- e da anni gli attivisti chiedono a gran voce che questo paesaggio fluviale venga protetto con l’istituzione di un parco nazionale secondo gli standard dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN).Se il Parco Nazionale del fiume Vjosa verrà istituito diventerà il più grande sito di protezione dei fiumi d’Europa, al momento però la decisione rimane nelle mani del governo di Tirana il quale secondo le informazioni disponibili sembra non avere in programma di istituire un parco nazionale ma solo un’area paesaggistica protetta per il corso superiore del Vjosa, il che non escluderebbe la possibilità di arginare il fiume.

VIDEOhttps://www.youtube.com/watch?v=-wIoAo6KGrw&fbclid=IwAR17QddKmWSvWACCEwR7R6LDfTHpN1gEH42R1aTELdZL37b8oTYswjylaec

La rete fluviale nei Balcani non ha pari in Europa. Uno studio ha dimostrato che ben 35.000 chilometri di fiumi nella regione sono ancora in ottime o buone condizioni mentre il 30 per cento di questi è allo stato naturale. Se guardiamo al resto d’Europa il quadro risulta completamente rovesciato: l’80 per cento dei fiumi è in cattive o pessime condizioni a causa di dighe o sviluppo intensivo.

Tuttavia, la costruzione indiscriminata di nuovi impianti idroelettrici tra la Slovenia e la Grecia sta minacciando ogni fiume e torrente di essere deviato o arginato. Non a caso i fiumi dei Balcani saranno oggetto di una sessione europea del Tribunale dei Diritti Della Natura che si terrà il prossimo 24 aprile e che analizzerà l’impatto delle piccole dighe sugli ecosistemi fluviali nonché le possibili violazioni dei diritti della natura ad esse correlate. Tra questi il diritto alla vita, all’habitat naturale, allo svolgimento del proprio ruolo nella Natura, il diritto a scorrere liberamente, ad evolversi ed a sostenere la biodiversità.

Il ricorso al Tribunale dei Diritti della Natura complementa altre strategie di lotta e resistenza delle comunità locali in difesa degli ecosistemi fluviali, e dimostra come oggi ogni istanza ecologista debba essere riorientata attraverso un diverso approccio alla “cura” ed al riconoscimento dei diritti di ogni forma vivente.

AMBIENTE: UNA LOTTA INTERSEZIONALE

Ad una maggior consapevolezza della stretta relazione tra le forme di oppressione deve infatti corrispondere un nuovo tipo di ambientalismo intersezionale. La lotta contro un certo tipo di modello estrattivista non può non tenere conto della dimensione patriarcale del capitalismo come quadro concettuale generale che genera e perpetua nelle nostre società tutte le forme di oppressione sulla base di dualismi oppositivi dove un termine viene elevato e il secondo svalorizzato. Spesso la violenza contro la natura e le donne vanno di pari passo e l’attacco alle difensore dell’ambiente avviene di proposito per colpire l’intera comunità e le conoscenze ancestrali di cui le donne sono custodi e portatrici. Il massacro avvenuto nell’aprile del 2004 a Bahía Portete, nel dipartimento della Guajira, è particolarmente emblematico e va a costituire uno dei tanti esempi della logica di dominio volta a colpire le donne per distruggere una comunità e costringere gli abitanti all’abbandono delle terre.

Se però il legame tra istanze femminista e ambientalismo risulta essere sempre più consolidato particolarmente difficile risulta ancora includere “gli altri della Terra (non umani)” nelle teorie intersezionali per sottrarli al processo di sfruttamento e consumo. Eppure, questo passaggio risulterebbe veramente rivoluzionario permettendo non solo di sradicare un sistema di oppressione che nasce dal mito della supremazia umana sulla natura ma anche ricollocare gli umani nei cicli della vita planetaria.

Per questo il prossimo passo fondamentale sarà trasformare gli animali e la natura da proprietà a titolari di diritti. Ed in questo senso il lavoro del Tribunale sui Diritti della Natura assume grande rilevanza in una sfida che oltre ad essere epistemologica, chiama in causa un modello economico e una visione del mondo che ha scritto e continua a scrivere codici di morte non solo sui corpi delle donne ma anche sulla natura.

pubblicato su Intersezionale il 10/03/21